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GIULIA SARNO

Cristalli di Rocca. Architetti in alta quota

 

 

Scuola Politecnica di Genova

Dipartimento di Scienze per l'Architettura

Laurea magistrale a ciclo unico

AA 2015/2016

Cristalli di Rocca architetti in alta quota.pdf

 

“Non costruire in modo pittoresco. Lascia questo effetto ai muri, ai monti e al sole... Sii vero!”(1)

L’esortazione di Loos ai colleghi che costruivano in ambiente alpino resta tuttora attuale; è importante, tuttavia, specificare che l’architetto si riferiva ad un contesto antropizzato, dove l’esperienza costruttiva secolare del montanaro ha portato ad una soluzione abitativa ottimale e rispettosa dell’ambiente alpino. L’alta montagna, uno spazio temuto e rimasto pressoché inviolato per secoli, ha conosciuto isolati interventi di antropizzazione solo a partire da fine Ottocento, con la nascita dell’alpinismo, e in modo più intensivo dall’inizio del secolo scorso. L’edificazione dei rifugi alpini non vanta, quindi, di una tradizione millenaria, ma ha semplicemente mutato il sapere costruttivo locale e le tecniche per la realizzazione di edifici in contesti meno impervi.

Al fine di capire cosa abbia spinto l’uomo a costruire tra i ghiacci perenni, si è dimostrato fondamentale ricostruire il rapporto instauratosi nei secoli tra questi e le montagne, ripercorrendo la storia settecentesca della “scoperta” delle Alpi, periodo in cui numerosi naturalisti fecero di questi territori il loro campo di ricerca preferito. Con la prima ascesa al Monte Bianco (8 agosto 1786), passaggio epocale nella storia europea, si assistette alla maturazione di un nuovo gusto dell’estetica, in cui le orride e spaventose Alpi, divennero sublimi e poi pittoresche. Da questo momento prese avvio una vera e propria “conquista” delle

vette, che permise la nascita della disciplina alpinistica. A questo fenomeno, anche grazie all’apporto della cultura filosofica, letteraria e pittorica dell’epoca, si accostò un turismo

montano “di valle”, che vedeva nell’ambiente montano un luogo salubre, ancora fervido di valori primordiali e in cui l’autenticità naturale e culturale erano rimaste intatte. Purtroppo, fu ad opera di questi stessi turisti cittadini che i modi di vivere delle popolazioni montane vennero stravolti e le Alpi si ritrovarono ad essere “colonizzate” nel corso del Novecento. 

Tra il XIX e il XX secolo, accanto a poeti, artisti e scrittori, anche alcune visioni utopiche di architetti contribuirono alla lenta costruzione del paesaggio alpino (John Ruskin, Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc e Bruno Taut). Nelle loro, seppur diverse, teorie emerge con forza l’idea della concatenazione tra forme naturali e artificiali: le montagne sono paragonate a

giganteschi monumenti, a “cattedrali della Terra”. Queste visioni concorrono a diffondere l’idea della montagna come luogo puro e sacro, rifugio dalla corruzione delle contemporanee città industriali. Con il diffondersi dell’alpinismo, i monti sono stati oggetto di puntuali interventi di costruzione di strutture atte ad ospitare alpinisti ed escursionisti. I primi ricoveri di fortuna erano ricavati negli stessi anfratti delle pareti, solo successivamente si è passati alle rudimentali capanne in pietra o legno, costruite secondo le possibilità economiche e di accessibilità al sito; si tratta di costruzioni quasi spontanee, che cercavano di dare una risposta alle esigenze funzionali della struttura e non certamente a quelle estetiche. Tuttavia, l’aumento

dei fruitori negli anni ha comportato un’evoluzione delle prestazioni dei rifugi, e l’uso dell’elicottero in cantiere ne ha facilitato gli interventi di ampliamento e ristrutturazione: oggi i rifugi d’alta quota sono architetture dalle forme complesse, in alcuni casi in veri e propri “cristalli di rocca”.

Accanto alle “originarie” funzioni di accoglienza e ristoro di alpinisti, il rifugio presenta anche valenze morali ed educative: lì si rifugge la frenetica vita cittadina, in quanto luogo di evasione dalla realtà, o meglio, come “terra di nessuno”. Sebbene, il rifugio abbia subito modificazioni epocali nel corso degli anni, nella maggior parte dei casi, è rimasto fedele alla sua vocazione. Ogni ricovero ha un’anima, dovuta principalmente all’affascinante ambiente

in cui sorge e alla sua funzione di “guardiano della montagna”, ma anche dalle persone che lo gestiscono e lo animano e, non per ultimo, dal suo progettista. Gli architetti hanno fatto la loro comparsa a queste quote solamente a partire dagli anni Trenta (preceduti di qualche anno dagli ingegneri); prima di allora le spartane capanne erano costruite da maestranze locali con materiali trovati in loco. Il rapporto tra progettisti e questi fragili territori è qualcosa che va ben oltre il semplice legame tra una professione e l’oggetto del suo incarico; infatti, chi si è misurato con la montagna e con la progettazione di un rifugio alpino ha fatto i conti con la passione totalizzante e con prove professionali sempre al limite della sperimentazione, fino a vere e proprie scommesse con gli agenti atmosferici e l’assoluta complessità di edificare ad alta quota, andando oltre le consuetudini.

Portaluppi, Melis, Sottsass sr, Fiocchi, Apollonio (unico ingegnere!), Mollino, Albini, Gellner, Rossi ed oggi G-Studio e MoDus Architects, nonostante la loro fama in ambiente perlopiù urbano, hanno saputo coniugare le proprie conoscenze tecniche alla specificità della montagna applicando accuratamente norme e principi della sostenibilità attraverso edifici a basso impatto ambientale capaci di vivere del speciale territorio in cui sorgono. Il radicamento di un’opera in ambiente d’alta quota risulta molto più complicata che in pianura, non vi è nessun “tessuto” o tradizione capace di dettare regole. Qui le costruzioni si confrontano direttamente con un contesto “immacolato” fatto di ghiaccio, rocce e cielo..

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1 A. Loos, Trotzdem, Brenner Verlag, Innsbruck, 1913 (trad. ita. “Regole per chi costruisce in montagna”,

in Parole nel Vuoto, Adelphi, Milano, 1992).

2 Ibidem.

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